Svegliamoci, Terre dell’Osso!

UNA MIA RIFLESSIONE SULLA SITUAZIONE DELLE NOSTRE ZONE, LE TERRE DELL’OSSO – Da Terre di Frontiera, 31 gennaio 2019

Negli ultimi venti anni la perdita netta di popolazione nel Mezzogiorno d’Italia – tenendo in considerazione unicamente i movimenti interni lungo la direttrice Sud-Nord – è stata pari a 1 milione 174 mila unità. Tra questi, quasi la metà dei trasferimenti (49,5 per cento) ha riguardato persone in età compresa tra i 15 e i 39 anni.
A renderlo noto è l’Istat attraverso il report “Mobilità interna e migrazioni internazionali della popolazione residente”pubblicato il 13 dicembre scorso. Proseguendo nella lettura del rapporto, l’Istituto nazionale di statistica scrive a chiare lettere che «nel 2017 più della metà dei cittadini italiani che si trasferiscono all’estero (52,6 per cento) è in possesso di un titolo di studio medio-alto: si tratta di circa 33 mila diplomati e 28mila laureati. Rispetto all’anno precedente il numero di diplomati emigrati è sostanzialmente stabile, mentre quello dei laureati mostra un lieve aumento (+3,9 per cento). Tuttavia,» precisa, «l’aumento è molto più consistente se si amplia lo spettro temporale: rispetto al 2013 gli emigrati diplomati aumentano del 32,9 per cento e i laureati del 41,8 per cento. […] Sicilia e Campania (rispettivamente -2,9 e -2,7 per mille) sono le regioni che presentano i saldi negativi più elevati per mille residenti.»
Sono dati che inconcepibilmente, di anno in anno, passano sotto traccia. Numeri che fotografano un quadro emergenziale dal quale si evince che il Sud, oltre a spopolarsi, resta l’area più povera d’Italia. Basti pensare che nell’anno 2017 il Pil pro capite è di 35 mila euro nel Nord-Ovest e 34 mila euro nel Nord-Est. Al Centro Italia, il Pil pro capite sfiora quota 31 mila euro mentre al Sud resta fisso attorno ai 18 mila euro. A questi dati vanno inevitabilmente aggiunti quelli inerenti al rapporto Caritas 2018, che mettono in evidenza come la povertà assoluta tenda ad aumentare al decrescere dell’età, decretando i minori e i giovani come le categorie più svantaggiate.

UNO SGUARDO ALL’IRPINIA
Calati nel territorio da cui provengo, nell’area più interna della Campania, questi numeri si sono tradotti in un aumento dei suicidi (o dei tentativi di suicidio), della disoccupazione – specie giovanile – e dei casi di depressione. Oggi potremmo parlare, a ragione, della progressiva perdita di speranza di un’intera generazione che tuttavia si sente ripetere che l’Irpinia è una terra dall’enorme potenziale. C’è addirittura chi l’ha definita, con qualche forzatura, “l’Irlanda d’Italia”.
Evidentemente i nostri politici locali, forse incapaci o ciechi ma sempre in prima fila quando si tratta di rilasciare interviste sui media, non hanno letto l’ultimo rapporto Istat. E preferiscono restare defilati quando si tratta di affrontare in maniera decisa e risoluta i problemi strutturali connessi al turismo, alla cultura, alle infrastrutture, al lavoro. Senza accorgersi che “l’identità dei borghi” di cui tanto ci preoccupiamo in seguito a un evento calamitoso, è la stessa che perdiamo ogni giorno quando uno alla volta partiamo per cercare fortuna lontano da qui.

VOGLIA DI RISCATTO
Tuttavia io resto convinto che spetti a noi trovare una soluzione, o meglio, un metodo per sopravvivere. Dobbiamo convincerci che dai nostri territori è possibile ricavare ricchezza, posti di lavoro e una qualità della vita medio-alta. Ma dobbiamo anche abbandonare l’idea che tutto ciò possa nascere spontaneamente in deroga alle competenze specifiche, con la stessa superficialità e lo stesso qualunquismo che hanno segnato l’epoca della “ricchezza post-sisma”. È ora di abbandonare il vecchio modo di fare di chi ormai si è assuefatto allo status quo. Dovremmo iniziare a percepire come necessario operare con rigorosità e con mentalità imprenditoriale, sacrificandoci tutti per il bene comune. Senza invidie. Ed è urgente iniziare a pensare alle nostre zone non come “terre d’Irpinia” ma, tutelando le nostre peculiarità, come “paesi d’Europa”. Ebbene sì, anche noi siamo l’Europa. Perché andare lontano per ampliare i propri orizzonti è positivo, ma essere costretti a emigrare, a scappare, a fuggire via non è bello. Nessuno dovrebbe poter vivere così.
È accaduto in passato, succede oggi e accadrà in futuro. Ma non dovrebbe più accadere a causa degli investimenti pubblici sbagliati o di una politica incapace e inerme che si accontenta di trasformare i nostri borghi in “villaggi vacanza” buoni ad attrarre turisti e ospiti per tre giorni all’anno. Perché l’abuso del prodotto tipico di turno, in queste occasioni, non equivale a una promozione del territorio.

RICOSTRUIRE COL PESO DELLE MACERIE EREDITATE
Più il tempo scorre e più le nostre terre, violentate da anni di apatia, sembrano abitate da persone inadeguate o impreparate a quel che il futuro potrebbe offrirci. Manifestazioni portate avanti senza pianificazione od obiettivi e traguardi reali, non lasciano appigli a cui far attecchire la speranza. Ogni estate tanti piccoli eventi, scoordinati e sconnessi tra loro, nascono e muoiono sprecando finanziamenti pubblici e non. Progetti figli di equilibri che nessuno vuol rompere di anno in anno lasciano con l’amaro in bocca chi crede o spera ancora che un singolo giorno possa cambiare le sorti di un borgo intero.
È ora di arrabbiarci perché portiamo addosso il peso di macerie che abbiamo ereditato. È ora di crederci capaci di gettare le basi per un futuro ancora tutto da scrivere. E, soprattutto, è ora di non delegare più alla politica ciò che è nostro dovere fare. Potremmo partire col rimpinguare le associazioni giovanili evirando le vecchie idee di gestione o col realizzare tavoli di concertazione ad hoc per studiare e proporre soluzioni a problemi atavici e strutturali. Potremmo provare a fare finalmente rete, unendo quelle realtà accomunate dalle stesse peculiarità. Potremmo aprirci, confrontarci e capire che la competizione è l’anima del progresso.
Non si può più aver paura. È ora di parlare con, per e attraverso i territori scegliendo di prendere le nostre decantate radici per trapiantarle nel futuro. Perché il mondo corre, ma noi restiamo fermi. Senza lavoro e preparazione nessun treno della speranza ci salverà. Anzi, sarà proprio quello a portarci lontano.

UNA RICCHEZZA CHE VA SEMINATA PER SCEGLIERE DI RESTARE
Allo stesso tempo, la politica locale faccia il proprio dovere sotto l’egida dei cittadini. Smettendo di crogiolarsi nella convinzione stantia che queste terre siano fortunate e benedette per la sola ragione d’esistere. E, dunque, iniziando a comprendere che la ricchezza, prima di poter essere raccolta, va seminata con sacrificio e capacità. Prima ancora di chiedere aiuto alla politica regionale o nazionale, io credo che sarebbe opportuno scendere in campo mettendo a disposizione della comunità le proprie competenze. I gruppi di lavoro e di studio potrebbero sostituire quel che, ormai tanti anni fa, erano in grado di fare i circoli di partito: creare, cioè, luoghi di aggregazione da cui far nascere idee vincenti e coinvolgenti. Al minimo, si potrebbe ritrovare la voglia di dialogare e confrontarsi su temi fondamentali per la nostra sopravvivenza.
Bisognerebbe ripartire da una progettazione partecipata degli eventi, della vita politica, degli interventi strutturali con l’obiettivo di agevolare l’apertura delle nostre terre a investimenti funzionali alla vita di chi, anziché partire, sceglie di restare. L’alternativa è fermarsi, nei villaggi di frontiera, a guardare i treni che attraversano le strade deserte di Tozeur, come recita una famosa canzone.